“Devi
partire” il capo con voce ferma e insolitamente roca. “Devi
farlo. È già prenotato un volo per martedì prossimo.”
Silenzio.
“Marco,
vedi, mi dispiace. Ma sono stato obbligato a prendere questa
decisione. So benissimo che non è il massimo per te, sapere così
all'improvviso che nel giro di una settimana cambierà tutto. Io
stesso non credevo che avremmo firmato il contratto in così poco
tempo.. Non mi hanno lasciato scampo.”
La
voce era diventata via via meno roca, in compenso la cosa insolita
adesso era il fatto che mi stesse dando tutte queste spiegazioni, con
tutta questa premura.
Non
l'avevo mai sentito coordinare tutte quelle frasi in una sola
battuta, ero abituato a ricevere informazioni a gesti e monosillabi,
non lasciando trapelare mai troppe emozioni, o comunque “cose non
dette”, e quasi sempre facendo altre cose nel frattempo che
“parlava” con me.
Non
so cosa mi destabilizzasse di più, effettivamente.
In
fondo, ero contento che avesse scelto me. Insomma, batosta improvvisa
a parte, non mi avrebbe fatto male cambiare aria due anni,
allontanarmi da tutte le pressioni che la vita mi stava gentilmente
porgendo di questo periodo, fare nuove esperienze, respirare posti
nuovi, conoscere persone diverse da quelle a cui ero abituato. Fuori
e dentro.
Silenzio
prolungato.
E
il capo non stava facendo altro.
“Ok,
parto.”
Un
accenno di sorriso sul suo volto. Era tornato in sé.
“..ma
sì, le mutande me le porto da qua. E poi se proprio me ne servissero
altre, le vendono anche in California, sai.”
“E
con il cibo come farai?? Oddio spero non passerai le tue serate in un
fast food..diventerai obeso! Che scena triste...”
“Ma
insomma! Me la sono sempre cavata. Non sarò Gordon Ramsey, ma non
sono neanche mai morto di fame! E poi sono molto più tranquillo di
lui. E di te.”
“Si
lo so, non dico questo. Ma.. E i vestiti? Va beh, lì è pieno di
lavanderie a gettoni! Se no potresti cercarti qualcuno che ti dia una
mano, che so, magari una volta a settimana...anche solo per i primi
periodi, così, per prendere il ritmo.”
“Poi?
Hai già contattato un prete e un medico affidabili? Potrei anche
avere bisogno di un buon fruttivendolo, e di un personal trainer..ci
pensi tu?”
“Dai
non fare così... Mi sto solo preoccupando per te...” Ma si vedeva
che stava trattenendo qualche altra paranoia non manifestata. Con
fatica.
“Non
c'è bisogno che ti preoccupi per me. Non sono un bambino.. Non IL
TUO bambino!”
“Invece
sì, sei il mio bimbo bello.” Emulando una vocina dolce e un po'
forzata, sicuramente finta.
“Ok
ma è un modo di dire, tu non sei mia madre!” Forse stavo per
spezzarle il cuore. (O forse l'avevo già fatto, ancora.) “Sei la
mia ragazza cazzo! E tra tutte le reazioni che potevi avere, hai
tirato fuori dal cappello quella sbagliata.” Ancora silenzio. “Sai
quante belle ragazze a San Francisco? Sai quanti locali? Quante
feste? Sai quanto fascino uno straniero? Sai quanto fascino io?!?
Dovresti.. LO SAI? Che sia così o no..Perchè non lo pensi neanche
un istante..? Perchè ti preoccupi solo di quante stracazzo di
mutande mi sto portando?”
Il
suo sguardo nel vuoto. Il mio su di lei. L'aveva già spogliata in un
istante, forse per l'ultima volta. E le mie labbra stavano baciando,
forse per l'ultima volta, il suo collo. Anzi, l'immagine che loro
stesse avevano nella loro mente del suo collo.
Un'immagine.
Questo era lei per me da un po' di mesi a questa parte. Nient'altro
che la rappresentazione di quello che lei stessa era, anzi che era
stata.
Marika
era ancora bellissima per me, non c'è dubbio. Ed io ancora molto
attratto da lei. Ma tra di noi non era rimasto nulla più che mera
attrazione fisica. Col tempo tutto il resto..era semplicemente
svanito nel nulla, scoperta dopo scoperta. Stavamo vivendo la
proiezione di una storia d'amore.
Non
bisognerebbe conoscersi mai fino in fondo.
Mentre
stavo lì a pensarci, avevamo già iniziato a far l'amore da un po'.
Tornando
nel mondo reale non mi ero accorto solo di questo, ma anche del fatto
che eravamo sotto casa sua, nel controviale di corso Vittorio, in
seconda fila e con le frecce d'emergenza accese già da un po', che
ad intermittenza comunicavano al mondo qualcosa come “non
preoccupatevi, tra poco in questa macchina si finirà di far l'amore,
forse per l'ultima volta.”
Era
notte fonda ormai, ma non avevo sonno. Non avevo mai sonno a notte
fonda, se c'ero arrivato sveglio. E quella notte fonda, ero parecchio
sveglio.
“..Andre
fammene una!”
“Il
solito?”
“Chiaro!”
“Chiara?!”
...
Ricominciamo:
“Ciao Andrea, una Guinness media per favore.” a differenza mia,
lui non arrivava mai troppo sveglio, a notte fonda. E, talvolta,
neanche troppo sobrio.
“Parto.”
“Bene.”
(stranamente non c'era arrivato neanche troppo curioso.)
Sugli
schermi una qualche replica di un qualche torneo di golf, col
tappetone vellutato ed ovattato del commento in qualche linguamadre,
nel locale qualche gruppetto decimato e sparso in qualche tavolino
qua e là, e qualche rumore di qualche auto che passa ogni tanto.
E
la profonda oscurità di una Guinness di fronte a me. Con tutte le
sue bollicine, che ordinate e pazienti si mettevano in coda per
risolversi in quel centimetro e mezzo di schiuma densa e morbida,
tipica delle Irlandesi.
Quant'è
facile la vita di una bollicina di Guinness. Qualcuno ti dice dove
riposare finchè arrivi a destinazione, ti travasano in un posto più
accogliente, fai quello che devi fare cinque minuti, poi giusto il
tempo di una digestione e puoi permetterti di vagare per l'aere a
tempo indeterminato, mossa solo dal caos, festeggiando circondata da
miliardi di miliardi di altre particelle gassose, ballando e
osservando la terra dall'alto...e magari anche sorridendo di quello
che succede giù.
Un
paio di mesi di limbo e poi il paradiso a vita. Senza neanche morire
mai.
Devo
esser ridotto parecchio male, per pensare a questo. Il caos è nella
mia mente, altrochè.
E
non ero neanche più così sollevato dall'essermi buttato ad angelo
verso il sorrisino del mio capo.
“Dove
vai?” Ah, ma allora non è poi così tardi.
“California.
San Francisco.”
“Ne
sei felice?”
“Si.
E no. Non so ancora.”
“Donna?”
“Sì...ma
non solo. Con lei è finita già da un po', forse questo aiuterà
solo a velocizzare le cose, renderle più rapide e indolori...”
Silenzio. “Ammesso che lo sarebbero state... Dolorose, intendo.”
“E
cosa ti frena?” Mentre asciugava contemporaneamente qualche
bicchiere e il lungo piano metallico interrotto solo dal lavandino
metallico, dall'altro lato del bancone.
“Tutto.
Non so se è la cosa giusta per me. Ho molte cose da sistemare qui, e
molte altre da portare avanti, olre al lavoro. Non c'è solo il
lavoro.”
“Non
ci sarà solo il lavoro anche lì!” Sempre illuminante. Non ci
avevo ancora pensato più di tanto, avevo altro a cui pensare.
“Non
so se questo mi incuriosisce, o se mi spaventa ancora di più.”
Infatti.
“Beh,
non so a cosa ti riferisci di preciso quando parli di quello che c'è
qui, ma di certo so che nella vita a volte mettere in pausa le cose
può servire a farle in qualche modo migliorare. Da sole, o quando
tornerai. Avrai tempo di ragionarle a freddo, con distacco, come se
tu non c'entrassi niente con loro. E poi recuperare tutto in un
attimo, andando a riordinare tutti i tassellini che hai rielaborato e
catalogato dall'altra parte del mondo. Invece se nel frattempo
peggiorano, meglio così. Molto probabilmente sarebbe capitato lo
stesso, ma da lontano si sente molto di meno il contraccolpo. Una
pausa porta sempre e solo benefici. Non fidarti di chi ti mette
fretta, l'importante è vivere, non importa cosa.” mentre poneva
tutte le sue attenzioni e i suoi sguardi ai suoi bicchieri, caldi di
lavastoviglie.
Sembrava
quasi sprecato, lì, ora.
“Una
pausa di due anni......” ma tanto mi aveva già convinto.
“Sì,
una pausa di due anni!” questa volta mi ha guardato, mezzo secondo,
prima di tornare ai bicchieri “una pausa è una pausa, le cose
ferme sono ferme indipendentemente dal tempo. Hanno un ritmo quando
si muovono, ma se le parcheggi stanno lì, immobili.”
“Sempre
illuminante.”
Maledetto,
è così fottutamente illuminante.